A te

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So quanto la tua solitudine ti abbia devastato. Avevi me, ma non sono mai stato abbastanza. Non te ne faccio una colpa, papà. Lo so che mamma era l’angelo della casa, colei che riusciva a riempirti il cuore quando tornavi da quel pessimo lavoro in quel vicoletto del Bronx ad aggiustare auto per pochi dollari.
Non avevamo niente eppure avevamo molto più di tanti altri.

Mamma ci ha lasciati troppo presto. Questo non lo hai mai superato.
Lo so, lo sentivo anche da bambino, quando i tuoi silenzi venivano sostituiti dai finti sorrisi che nascondevano un paio di lacrime scappate all’improvviso.
Mi raccontavi sempre quanto fosse bella il giorno del matrimonio, con quel velo che le copriva appena i capelli, perché ci teneva a mostrare l’acconciatura. Mi raccontavi che la domenica ti preparava sempre la torta di mele che ti piaceva tanto e si sedeva con te sul balcone appoggiandoti alla tua spalla a guardare i bambini giocare nel cortile sotto casa, desiderandone uno anche lei.
Mi raccontavi che quando arrivai io, non riusciva a capacitarsene. Che mi guardava dormire per ore, senza mai staccarsene.
Poi la malattia se l’è portata via e siamo rimasti solo tu e io. E tu mi hai fatto da papà e anche da mamma. E ancora rido quando durante la pubertà hai provato a spiegarmi il sesso. “Una cosa da uomini, figliolo”, mi dicesti. E non sapevi mettere insieme due parole e io invece te ne chiedevo altre centomila.

Poi sposai Monica, contro il tuo volere. Perché tu già sapevi. E quando anche Monica ci lasciò mi dicesti che avevi capito da anni che io ero diverso e che non c’era niente di male, che dovevo vivere la mia vita, che non dovevo preoccuparmi delle dicerie o di chi mi avrebbe detto cosa fare e cosa no. Che dovevo essere me stesso. Ridge e basta.

E quando venne ReZ, gli dicesti di avere pazienza con me, perché ero una testa calda, di proteggermi perché nonostante la mia scorza dura per te sono sempre stato il tuo bambino indifeso. Lui lo approvasti. Monica no. Lui sì. Dicesti che non avrei mai dovuto ferirlo, perché ora era lui la mia famiglia. Dicesti che eri troppo vecchio per continuare a vegliare su di me e che lo avrebbe fatto ReZ. Ma io non ti ho mai permesso di andare in pensione dal tuo lavoro di genitore. Perché tu sei la mia roccia, il mio faro, la mia concretezza, quello che è sempre riuscito a farmi vedere l’altro lato delle cose, un altro punto di vista che io, caprone, non riesco mai a cogliere.

Mi spiace, papà, perché stai dimenticando tutto. La mamma. L’officina. Pongo, il tuo ultimo cane. ReZ. E forse anche me.
Ma le persone non ti dimenticheranno. Mai. Perché io scriverò per sempre quello che sei stato. Con un’altra penna, visto che quella che mi donasti si è esaurita. Ma con lo stesso amore che provo per te da quando mi hai messo al mondo.

A te, papà. Che sei una parte di me.